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venerdì, 22 Novembre 2024

Il ponte delle spie, cinema e politica

Il ritorno nelle sale, dopo tre anni di assenza, di un cineasta del calibro di Steven Spielberg non può passare inosservato e non si può pensare che il pubblico e la critica pretendano “solo” un buon film da un regista come lui. Il ponte delle spie, scritto dai fratelli Coen ed ispirato ad una storia vera, racconta la difficile situazione dell’avvocato americano James Donovan, interpretato ottimamente da Tom Hanks, che sarà costretto a rappresentare in un processo-farsa la spia russa Rudolf Abel (magnifica prova recitativa di Mark Rylance, candidato ai Golden Globe come miglior attore non protagonista), per poi ritrovarsi a dirigere le trattative di scambio con l’Unione Sovietica per far liberare il pilota americano Powers (Austin Stowell). La fotografia di Janusz Kaminski, che ha già collaborato diverse volte con Spielberg, vincendo l’Oscar per Shindler’s list Salvate il soldato Ryan, porta lo spettatore dritto negli anni della guerra fredda e la magistrale regia di Steven, curata ed attenta ai dettagli, ai piccoli gesti dei protagonisti, eleva il film ad un livello tecnico altissimo, rendendo l’atmosfera adeguata alla storia proiettata sullo schermo. L’esperienza di Donovan permette di osservare il clima ostico di quegli anni, in particolare nella seconda metà del film, quando l’avvocato si reca a Berlino (siamo nei primi anni del “muro”) per svolgere i negoziati, dove assiste ad alcune scene di morte e disperazione che non possono lasciare indifferente lo spettatore. La prima parte ambientata in America, invece, mostra come l’opinione pubblica a stelle e strisce sia violentemente influenzata dal clima patriottico che pervase gli USA durante la guerra fredda, ma, andando avanti nel film, Spielberg abbandona gradualmente una visione più distaccata degli eventi, per avvicinarsi anche lui al patriottismo, rappresentato in primo luogo (giustamente) dalla figura di Donovan, accanito difensore dei diritti umani e della legge americana e successivamente dalle scene, probabilmente filtrate dalla coscienza statunitense del regista, che rappresentano i differenti trattamenti riservati ai prigionieri di guerra degli USA, dove Abel riceve anche un foglio ed una matita per disegnare, e dell’URSS, dove Powers viene quasi torturato per essere costretto a rivelare alcuni segreti di stato americani. Nonostante la storia offra interessanti spunti di riflessione sulla guerra fredda, sui giochi di potere che, in fin dei conti, danneggiano esclusivamente i cittadini e gli innocenti, la sceneggiatura dei Coen non solo non riesce ad essere totalmente imparziale, ma presenta diverse pecche e preoccupanti cali di ritmo che non permettono al film di fare il salto di qualità sperato e di analizzare profondamente e dettagliatamente gli affascinanti temi trattati, come siamo abituati a vedere nelle pellicole di Spielberg. La sensazione uscendo dalla sala è di aver assistito ad un film tecnicamente perfetto e potenzialmente di grande impatto, ma a cui manca quella scintilla che fa gridare al capolavoro e che distingue il cinema dal grande cinema. Il ponte delle spie è un buon film, ordinario, con un cast ed una regia straordinari.

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