Donald Trump ha firmato a Sharm el-Sheikh un accordo che definisce “storico” per la pace in Medio Oriente. Davanti a una platea internazionale, l’ex presidente americano ha proclamato l’inizio della ricostruzione di Gaza, chiudendo – almeno formalmente – anni di conflitto e instabilità. Al suo fianco, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e la premier italiana Giorgia Meloni, che ha confermato la disponibilità dell’Italia a contribuire con una missione di sicurezza sotto l’egida ONU.
L’intesa, costruita con la mediazione di Washington e Il Cairo, prevede una fase di transizione complessa, nella quale Hamas potrebbe avere un ruolo temporaneo di controllo sul territorio. Una scelta che suscita dubbi tra gli osservatori, vista la difficoltà di conciliare il disarmo con la gestione dell’ordine pubblico.
L’Egitto si prepara a ospitare un nuovo summit già a novembre per definire i dettagli del piano di ricostruzione. Sul fronte diplomatico, Macron propone una conferenza umanitaria a Parigi, mentre Israele resta defilato: l’assenza del premier Netanyahu, ufficialmente per motivi religiosi, è stata interpretata come un segnale politico.
Trump guarda avanti, parla di “una nuova era di cooperazione” e rilancia l’idea di ampliare gli Accordi di Abramo. Tuttavia, dietro i sorrisi e le strette di mano, restano molte incognite: la tenuta dell’accordo, il ruolo di Hamas e l’effettiva possibilità di riportare stabilità in un’area da decenni segnata da guerre e sospetti.
Sharm el-Sheikh si trasforma così nel palcoscenico di un fragile ottimismo. “Abbiamo la pace”, ha detto Trump. Ma per Gaza, la pace vera, quella che si costruisce mattone dopo mattone e non a colpi di penna, è ancora tutta da scrivere.