Nel settore tessile internazionale, dove la maggior parte della forza lavoro è composta da donne, continua a consumarsi una realtà spesso ignorata: molestie, abusi e ricatti che avvengono lontano dai riflettori. In India, uno dei principali poli mondiali dell’abbigliamento, molte lavoratrici subiscono pressioni e violenze da parte dei responsabili di fabbrica, in un contesto in cui denunciare è quasi impossibile.
Le testimonianze raccolte da organizzazioni come Fedina e Mani Tese mostrano un sistema in cui l’impunità è radicata. Chi prova a segnalare un abuso si scontra con procedure che richiedono “prove” difficili da ottenere e che spesso si trasformano in ulteriori penalizzazioni per le vittime. Il risultato è un ambiente di lavoro dove la paura prevale sulla tutela dei diritti.
La campagna Stop Sexual Harassment of Garment Workers cerca di invertire questa tendenza, offrendo supporto legale, spazi di confronto e percorsi di empowerment rivolti a migliaia di donne. L’obiettivo è rompere il silenzio che per anni ha avvolto questa parte nascosta della filiera globale.
Nonostante le dichiarazioni di responsabilità sociale dei grandi marchi dell’abbigliamento, i dati dimostrano che la distanza tra impegni pubblici e condizioni reali rimane enorme. Molte lavoratrici percepiscono salari minimi, affrontano turni pesanti e vivono in condizioni che compromettono salute fisica e mentale.
Il Fashion Transparency Index conferma queste disparità: quasi tutti i grandi brand non rendono noti i salari della filiera né presentano piani credibili per garantire una retribuzione dignitosa.
Al di là delle etichette e delle campagne pubblicitarie, il settore dell’abbigliamento continua dunque a poggiare sul lavoro invisibile e vulnerabile di donne che, ogni giorno, affrontano rischi e ingiustizie per sostenere un modello produttivo che raramente le riconosce.

