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lunedì, 13 Ottobre 2025

Italia, la crescita che non basta: dietro i record occupazionali un Paese che si impoverisce lavorando

Secondo l’ultima analisi dell’Osservatorio ISFOA su dati OCSE, il mercato del lavoro italiano mostra segnali positivi solo in apparenza: salari reali in caduta, giovani esclusi, produttività ferma e un futuro demografico che minaccia la sostenibilità del sistema.

L’ultimo rapporto OCSE sul lavoro fotografa un’Italia che si muove, sì, ma in salita.
I numeri dell’occupazione sembrano incoraggianti: disoccupazione in calo, occupazione ai massimi storici, inattività in discesa. Ma sotto la superficie, avverte l’Osservatorio ISFOA, continuano a ribollire fragilità strutturali che minano la tenuta del sistema.

Il mercato del lavoro “corre” solo sulla carta. I salari reali, al netto dell’inflazione, valgono oggi il 7,5% in meno rispetto al 2021, segnando il peggior dato tra tutte le principali economie avanzate. Un crollo che erode il potere d’acquisto delle famiglie e smonta le narrazioni ottimistiche legate agli aumenti nominali derivanti dai rinnovi contrattuali. Troppo poco, troppo tardi: un lavoratore su tre nel settore privato è ancora coperto da un contratto scaduto.

Nel frattempo, la forbice con il resto dell’area OCSE si allarga. Mentre altrove i salari reali cominciano a risalire dopo la fiammata inflazionistica post-pandemia, in Italia la ripresa è lenta e incerta. Per il biennio 2025-2026 l’OCSE stima una crescita dei salari nominali del +2,6% e +2,2%, valori che consentiranno – forse – appena di pareggiare un’inflazione attesa rispettivamente al 2,2% e 1,8%. Un pareggio, nella migliore delle ipotesi.

Eppure, i dati occupazionali sembrano da record: disoccupazione al 6,5%, pur restando sopra la media OCSE del 4,9%, e crescita dell’occupazione dell’1,7% nell’ultimo anno. Ma si tratta di una crescita che parla soprattutto la lingua degli over 55, mentre i giovani restano ai margini. Il tasso di occupazione complessivo, 62,9%, resta ben al di sotto della media OCSE (70,4%). Un divario che fotografa un’Italia ancora incapace di includere donne, giovani e Mezzogiorno nel proprio sviluppo produttivo.

Il dato più allarmante, tuttavia, arriva dal fronte demografico: da qui al 2060, la popolazione in età lavorativa crollerà del 34%, mentre l’indice di dipendenza degli anziani – il numero di pensionati per ogni persona in età da lavoro – salirà da 0,41 a 0,76, ovvero un anziano ogni 1,3 lavoratori. Un equilibrio insostenibile, che fa tremare i conti pubblici e rende urgente una riflessione sul modello pensionistico.

L’OCSE avverte: alzare l’età pensionabile non basterà.
Servono politiche di occupabilità a lungo termineformazione continuatransizioni graduali al pensionamento e una cultura del lavoro che valorizzi anche la maturità professionale. Oggi, solo il 9,9% degli italiani tra i 50 e i 69 anni continua a lavorare dopo il pensionamento, contro il 22,4% della media europea OCSE. Un segnale di rigidità del mercato e, forse, di un modello culturale che vede il lavoro in età avanzata più come un fallimento che come una risorsa.

Infine, la vera zavorra strutturale: la produttività.
Se continuerà a crescere al ritmo anemico degli ultimi vent’anni (+0,31% annuo), il PIL pro capite italiano rischia di scendere dello 0,67% all’anno. Non basta lavorare di più: bisogna lavorare meglio. E questo richiede investimenti miratiinfrastrutture efficientiinnovazione tecnologica, ma soprattutto capitale umano motivato, formato e adeguatamente retribuito.

Dietro le cifre rassicuranti di un’occupazione in crescita si nasconde dunque un Paese che invecchianon valorizza il proprio lavoro e rischia di impoverirsi anche lavorando. Un Paese che tutela chi è già uscito dal mondo produttivo e fatica, invece, a premiare chi prova a entrarvi.

L’Italia non ha bisogno soltanto di più occupati. Ha bisogno di un lavoro che torni a valere — economicamente, socialmente e culturalmente.

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