Il confronto acceso andato in scena a Roma, durante una conferenza internazionale dedicata alla violenza contro le donne, ha messo in evidenza due letture diverse sul fenomeno dei femminicidi. Da un lato la ministra Roccella ha sottolineato che l’educazione sessuale scolastica, spesso indicata come soluzione immediata, non mostra una correlazione diretta con la riduzione delle violenze. Il riferimento alla Svezia, dove tali programmi sono consolidati ma i numeri restano alti, è servito a raffreddare entusiasmi e semplificazioni.
Roccella ha però evidenziato un dato positivo: in Italia si registra un leggero calo dei casi. Un segnale che, secondo lei, dimostra l’efficacia delle misure adottate finora, pur riconoscendo che ogni vittima rappresenta una sconfitta per l’intero sistema di tutela.
Di tono diverso l’intervento del ministro della Giustizia Nordio, che ha collocato l’origine della violenza di genere su un piano storico e culturale. Secondo la sua analisi, la persistenza del dominio maschile affonderebbe le radici in una lunga eredità sociale basata sulla forza fisica, un retaggio che continua a influenzare comportamenti e mentalità. Per questo, ha sostenuto, oltre a strumenti repressivi e preventivi è indispensabile un lavoro educativo profondo, capace di scalfire stereotipi sedimentati nei secoli.
La discussione, pur articolata su piani diversi, converge su un punto: la necessità di affrontare il problema con una strategia plurima, che unisca interventi concreti, prevenzione capillare e un cambiamento culturale di lungo periodo. Perché la battaglia contro i femminicidi non può essere affidata a un unico strumento, ma richiede un impegno costante e collettivo.

